martedì 15 marzo 2016

Platone

Platone (Atene, 428/427 a.C. - Atene, 348/347 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Fu allievo di Socrate la cui condanna lo porterà a sviluppare la sua filosofia, la quale costituirà la base del pensiero Occidentale, assieme alle successive confutazioni del suo allievo Aristotele.

Attenzione: il seguente articolo è in via di sviluppo, pertanto potrebbero esservi degli errori. Qualora ne trovaste, abbiate la premura di segnalarmeli tramite un commento. Grazie per la collaborazione.

La vita di Platone è stata fortemente influenzata dalla morte di Socrate, avvenuta nel 399 a.C., in seguito alla quale inizierà il suo percorso filosofico alla ricerca di quelle caratteristiche che potevano essere poste come fondamento di uno stato probo e virtuoso. 

Il pensiero platonico è basato in gran parte su quello socratico, da cui riprende in particolare l'accezione prima del termine "filosofo", definito addietro da Socrate come colui che essendo consapevole delle propria ignoranza si avvia alla ricerca della sapienza. Concorda, inoltre, con l'idea del bene supremo in vista del quale si movimenta l'intera umanità, e che può essere colto solo mediante la ragione, trascendendo, dunque, dagli aspetti individuali e particolari di cui la realtà fenomenica si compone. Per Platone, dunque, tutto ciò che è dimostrabile attraverso la ragione ha validità universale ed assoluta. Grazie a questa concezione il relativismo sofistico - secondo cui l'essenza della realtà non può essere colta dall'uomo, il quale può fare affidamento soltanto sui suoi sensi per interpretarla - è superato. 

Diverse sono, tuttavia, le differenze che contraddistinguono Platone da Socrate: a partire dal complesso sistema filosofico trascendente (iperuranio) su cui poggia l'intera filosofia platonica sino ad arrivare alla scrittura dei trentasei Dialoghi. Questi, sono la soluzione applicata da Platone per tramandare il suo pensiero; egli, a cavallo tra l'oralità legata alla tradizione arcaica e alla produzione letteraria tipica dell'età moderna, mediante la redazione dei Dialoghi segna una svolta decisiva nel sistema della comunicazione filosofica. La scelta del dialogo non è casuale: Platone riteneva, infatti, che mediante i dialoghi fosse possibile giungere ad un sapere oggettivamente valido che oggi definiremmo scientifico. Tuttavia, anch'egli, come Socrate, ritiene che un testo scritto quando viene interrogato risponde sempre alla stessa maniera, e per sopperire, o per meglio dire, trovare un efficace compromesso tra la scrittura e l'oralità, adopera i dialoghi poiché questi sono la forma stilistica più vicina al dialogo vero e proprio compiuto tra persone in carne ed ossa

Ciononostante, benché il corpus platonico ci sia pervenuto integralmente dall'antichità, è probabile che non profili appieno il pensiero di Platone, poiché questi in una Lettera (Lettera VII) fa notare che le cose più importanti possono essere notificate soltanto oralmente, vale a dire attraverso la parola. Ciò a cui il filosofo fa riferimento sono le cosiddette dottrine non scritte, in merito alle quali asserisce: «posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto». A seguire, Platone afferma l'incomunicabilità letteraria della sua filosofia sostenendo che «essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima». Si presume, dunque, che buona parte - se non addirittura la maggioranza - dell'insegnamento platonico sia stato espresso oralmente nell'Accademia [1]. Secondo l'interpretazione delle testimonianze indirette fornite da Aristotele ed i suoi successori, le dottrine non scritte tratterebbero il tema dei principi primi, vale a dire quei principi posti alla base dell'intera realtà, tanto metafisica quanto empirica. Tali principi consisterebbero nei concetti contrapposti di Uno e Diade: l'Uno, ripreso dalla scuola pitagorica, s'identifica con l'idea del Bene trattata nei Dialoghi, e costituisce l'integrità a cui fa riferimento un'accezione positiva; la Diade, al contrario, costituisce l'aspetto negativo a cui viene attribuita la causa del disordine e della molteplicità. Secondo le osservazioni del filosofo Giovanni Reale Platone avrebbe avuto la necessità di introdurre i principi primi per poter fornire un'ulteriore e più fondata spiegazione all'Uno e alla molteplicità, a cui la teoria delle idee, benché innovativa, non aveva saputo rispondere esaustivamente; da qui la necessità di uniformare sotto l'Uno una pluralità di entità empiriche, nonché le idee stesse (questo poiché le idee sono pur sempre molteplici e pertanto necessitano anch'esse di un principio primo in grado di spiegarne la pluralità). Sulla base di questi propositi, Platone considera la realtà come una mescolanza di Uno e Diade, ossia di limitatezza ed illimitatezza al tempo stesso.

L'insieme delle opere platoniche, il corpus, nel complesso contano 36 opere articolate in: 34 dialoghi, 13 lettere e l'Apologia di Socrate. I dialoghi, secondo i comuni accordi, vengono divisi in: dialoghi giovanili o socratici (395/988 a.C.), dialoghi maturi (387/367a.C.), dialoghi della vecchiaia o dialettici (composti a partire dal 365 a.C.). Non tutti i dialoghi sono attribuili con certezza a Platone, per questo spesso viene discussa la paternità di alcuni di essi, tra cui: Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Amanti, Teage, Minosse, Midone, Erissia, Alcione, Feaci, Demodoco, Chelidone, Epimenide e altri ancora.

Le tematiche trattate nei dialoghi variano a seconda del periodo: nel caso dei dialoghi socratici viene esposto principalmente il tema delle virtù cercando di definirla in abstracto e analizzandone una in particolare, a seconda del dialogo (nel Carmenide la temperanza, nel Lachete il coraggio, nel Liside l'amicizia, etc). Due dialoghi in particolare, il Gorgia e il Protagora, sono definiti aporetici perché in essi non si giunge ad una vera e propria conclusione, bensì si sollevano nuove domande man a mano che si approfondisce l'argomento proposto e si giunge a concordare sui suoi vari aspetti. Questo approccio segue la metodologia adoperata da Socrate, il quale non ha la pretesa di scoprire la verità, ma si limita a ricercarla, approssimandovisi a poco a poco. 

Come si è detto, Platone rispetto a Socrate compie nuove considerazioni e passi in avanti, riuscendo ad andare oltre le risposte ironiche e provvisorie elargite dal suo maestro. In questo senso, Platone, trascende la realtà particolare: ricercando il senso ultimo della realtà empirica egli erige una speculazione metafisica che ha come fondamento la natura universale delle cose, ciò che esse sono in sè. Pertanto, tornando a riflettere sulla questione socratica (la virtù è insegnabile?) Platone avanza il suo pensiero, secondo cui affinché la virtù sia insegnabile è necessario anzitutto definirla, vale a dire cogliere la sua essenza intrinseca servendosi della ragione e impossessandosi, dunque, della sua natura puramente intelligibile attraverso l'intuizione.

Il tema centrale della speculazione platonica è, dunque, il mondo delle idee, ovvero il mondo delle cose in sè. Le idee, secondo Platone, sono, infatti, entità reali munite di una propria sussistenza e sono ubicate nel mondo oltre il cielo ("sopraceleste"), l'iperuranio, entro il quale le anime possono contemplarle non appena esse si districano dal corpo materiale (mediante la morte) oppure attraverso un processo di purificazione. Questa concezione porta ad avere una netta distinzione tra la realtà empirica, la quale conduce alle opinioni (doxa), e realtà intelligibile, la quale, invece, porta alla vera, universale ed incontrovertibile conoscenza: l'episteme.

Secondo Platone, tra le idee e le realtà sensibili sussistono tre possibili rapporti: mimesi, metessi e parusia. La mimesi (da mimesis, ossia imitazione) riguarda l'essenza dell'essente: vale a dire, inerisce la natura dell'entità di cui viene predicato il fatto che esso "è" (e.g. Socrate è un uomo). La mimesi stabilisce un rapporto imitativo tra l'ente e l'idea corrispondente: secondo Platone, infatti, i vari costituenti della realtà empirica sono mere copie di un modello ideale; pertanto, esse imitano, in maniera imperfetta, tale realtà trascendente: l'idea. La metessi, invece, stabilisce un rapporto di partecipazione, ossia, costituisce la relazione che unisce le entità sensibili al binomio idea-valore. In relazione alla mimesi, attraverso la metessi, è possibile predicare gli attributi di una data entità. Supponiamo, ad esempio, la seguente proposizione: «Socrate è un uomo giusto». Il rapporto di imitazione (mimesi), in questo caso, è dato dal fatto che l'individuo Socrate "è" un uomo, imita, cioè, l'idea di Uomo; il rapporto di partecipazione, invece, è dato dal fatto che egli "è" giusto, partecipa, cioè, all'idea della Giustizia, con la quale, però, non si identifica (come accade invece con l'idea di Uomo, che rappresenta la sua essenza). Questa importante distinzione fa sì che l'idea che un'entità imita è necessariamente unica (Socrate è un uomo e non può essere altro, quindi imita soltanto quella singolare idea di Uomo), mentre invece le idee che vengono affiancate all'essenza dell'ente, possono essere molteplici (Socrate, infatti, può partecipare sia all'idea di Giusto che di Brutto, sia all'idea di Simpatico che Intelligente, e così via). Vi è, infine, l'ultimo legame, la parusia. 

La filosofia platonica, ed in particolare la teoria delle idee, supera il relativismo sofistico, in particolare quello sostenuto da Protagora, il quale considera «l'uomo misura di tutte le cose» e crede che l'unica conoscenza possibile da parte dell'uomo sia quella relativa ai suoi sensi, e pertanto consiste in una mera sensazione mutevole a seconda del soggetto: un'opinione. In proposito Platone si chiede: la conoscenza perviene all'uomo mediante i sensi o, piuttosto, attraverso l'anima per mezzo dei sensi? Al quesito il filosofo risponde con la teoria della reminescenza, particolarmente esplicata nel dialogo Menone: ivì viene presentato uno schiavo che, guidato da Socrate, pur essendo privo di conoscenze matematiche riesce a dimostrare un teorema di geometria, dapprima cadendo in errore per via dei sensi, e in un secondo momento, mediante la maieutica, ricercando in se stesso l'evidenza dei fatti. Con questo Platone conclude che conoscere è ricordare e conviene con la credenza orfica della metampsicosi [2], secondo cui l'anima conosce la soluzione al problema poiché in una vita precedente ha contemplato le idee nell'iperuranio ed ora, mediante il logos e le immagini sensibili, trova in se stessa la verità, la conoscenza.

Ciò che Platone vuole lasciar intendere è che l'anima ha già il sapere in se stessa ed è predisposta innatamente alla conoscenza, pertanto non deve asservirsi ai sensi, bensì approppriarsi di essi e mediante il loro impiego trovare la forma intelligibile dell'entità che osservano. Per spiegare il meccanismo della conoscenza umana Platone sviluppa uno schema all'interno del dialogo Repubblica.


Schema del processo conoscitivo umano


Il segmento AE costituisce la conoscenza totale mentre i segmenti intermedi rappresentano i suoi diversi gradi. Come facilmente individuabile, il punto C delinea due segmenti: AC e CE, i quali simboleggiano, rispettivamente la conoscenza sensibile (doxa) e quella intelligibile (episteme). Il segmento AC, vale a dire quello che simboleggia la conoscenza sensibile, è diviso a sua volta in due linee dal punto B: AB e BC. I gradi della conoscenza sono, dunque: immaginazione (AB) e credenza (BC) per il mondo sensibile, ragione discorsiva (CD) e intuizione (DE) per il mondo intelligibile. I primi due gradi, immaginazione e credenza, non forniscono un sapere certo e stabile bensì una conoscenza mutevole e soggettiva poiché perviene esclusivamente mediante i sensi, analoga al sapere sofistico; ragione discorsiva e intuizione, invece, rendono una conoscenza inoppugnabile.

Per Platone, oggetto della conoscenza immaginaria sono quelli che egli chiama immagini sensibili, raggruppate in: «immagini», «ombre», «riflessi sull'acqua o sui solidi, sulle sostanze levigate e luminose e tutte le cose di questo genere». Chi si affida a questo tipo di conoscenza è il più lontano dalla verità, poiché confonde le ombre con l'entità stessa. Per analogia, costoro è come se confondessero un sogno con la realtà

Per quanto attiene al secondo grado della conoscenza sensibile, la credenza, Platone identifica in esso l'intera realtà sensibile di cui è possibile cogliere la costituzione soltanto attraverso i cinque sensi. 

Il primo grado della conoscenza intelligibile, la ragione discorsiva, riguarda, invece, le entità puramente intelligibili quali la matematica. Gli oggetti matematici sono, per Platone, entità intermedie tra il sensibile e l'intelligibile, poiché, ad esempio, per dimostrare il teorema di Pitagora viene disegnato prima un triangolo e successivamente vengono avanzate delle considerazioni sulla base dei suggerimenti che la figura stessa propone; tuttavia, è soltanto con l'intuizione che è possibile cogliere l'idea di triangolo in abstracto per poter dimostrare il teorema indipendentemente dalla particolare figura disegnata, la quale, a seconda delle circostanze può avere caratteristiche diverse

L'ultimo grado della conoscenza è dato dall'intuizione a cui la matematica ci avvicina. Con l'intuizione è possibile cogliere l'idea in sè, indipendentemente dalla forma particolare che questa assume. E', dunque, possibile avere una conoscenza scientifica ed universale.

Nel libro VII de La Repubblica, Platone introduce un racconto, noto come mito della caverna, in cui descrive degli uomini, i quali sin dalla nascita si trovano legati all'interno di una caverna. Essi non possono muoversi dalla posizione in cui si trovano, e pertanto non possono far altro che fissare il muro che si trovano innanzi. Alle loro spalle vi è un fuoco e tra questo ed i prigionieri vi è un muro dietro il quale alcuni uomini trasportano degli oggetti, i quali, proiettando la propria ombra verso il muro della caverna, desterebbero l'interesse degli incatenati, portandoli a credere che le ombre che vedono siano effettivamente ciò che vedono: essi crederebbero, cioè, che l'ombra di un uomo sia l'uomo stesso. Poiché non conoscono la realtà delle cose, costoro conoscerebbero il mondo soltanto attraverso quello che nello schema precedente è stato inserito al primo livello: l'immaginazione. Platone suppone poi che un prigioniero riesce a liberasi dalle catene e, voltandosi, rimane abbagliato dalla luce del fuoco (che fino ad allora non aveva mai visto) causandogli dolore. Quando poi questi scoprirebbe che le ombre proiettate sulla parete derivano, in realtà, da degli oggetti trasportati da altri uomini, egli rimarrebbe comunque profondamente turbato circa la veridicità del fatto, quand'anche gli venisse dimostrato in modo incontrovertibile. Se poi, tale prigioniero venisse fatto uscire a forza dalla caverna ed esposto alla diretta luce del Sole, rimarrebbe accecato e non vedrebbe più nulla e si sentirebbe irritato per il forzato trasporto all'infuori della caverna. Tuttavia, una volta fuori da essa, egli inizierà a scoprire a poco a poco il vero mondo, quello illuminato dalla luce solare, sebbene in un primo momento l'intensità del Sole lo porti ancora a confondere i riflessi con gli oggetti stessi. Soltanto con l'abitudine riuscirà a distinguere le due cose, e solo allora capirà che quel che all'interno della caverna aveva creduto essere l'unica componente della realtà, non è, invero, che una parte. E per di più, neanche la più importante.

Attraverso questa elaborata allegoria Platone concilia l'aspetto ontologico e gnoseologico del suo pensiero, ed illustra i diversi gradi del processo conoscitivo degli uomini

Allegoricamente                   Ontologicamente          Gnoseologicamente
ombre                                    immagini sensibili            immaginazione
oggetti nella caverna             oggetti sensibili               credenza
riflessi fuori dalla caverna     matematica                     ragione discorsiva
visione diretta                       idee                                 intuizione (noesi)

Le allegorie presenti nel racconto non si limitano, tuttavia, a quelle sopra riportate. Il filosofo di Atene, infatti, identifica le catene che tengono imprigionati gli uomini alle abitudini che li legano alla conoscenza sensibile, impedendo loro di porgersi domande e mettere in discussione le credenze ritenute vere ed apparentemente incontrovertibili. A tal fine è quindi necessario sciogliere le catene, liberarsi dalla prigionia, avviando un processo di analisi e ricerca della vera conoscenza, vale a dire alla ricerca dell'essenza delle cose; ciò che esse sono in sè.

Nel mito della caverna, Platone traccia anche la missione che il filosofo deve portare avanti: liberare gli altri prigionieri dalle catene e mostrare loro il vero mondo. Ma poiché questi, ormai uomo libero, non riconosce più le credenze che i prigionieri ritengono essere vere, essi lo deriderebbero e tenterebbero persino di ucciderlo, proprio come accaduto a Socrate.
  
Mediante la teoria delle idee si origina una netta distinzione fra il mondo sensibile e quello intelligibile, caratterizzato, l'uno dalla presenza delle copie delle idee, e l'altro dai modelli ideali imitati dalle copie (dualismo). In questo modo si crea, appunto, una netta separazione sul piano ontologico. Ciò che di questo pensiero resta irrisolto è il modo in cui le realtà sensibili - molteplici, in continuo divenire, imperfette ed eterogenee - possano instaurare una relazione con le realtà intelligibili, ovvero le idee. 

Nasce, inoltre, un ulteriore problema: poiché le entità sensibili sono copie imperfette della corrispettiva idea, si dovrebbe credere che esista una corrispondenza tra le idee e le cose che, sia pur in modo imperfetto, rispecchiano o partecipano - più in generale hanno un legame - al mondo delle idee. Però, qualora i due mondi - il sensibile e l'intelligibile - risultino inconciliabili tra loro, non si avrebbero ragioni per dubitare dell'esistenza di un mondo sottoposto ad un maggior grado di perfezione (l'iperuranio); d'altro canto, se le forme sensibili fossero perfette le due realtà collimerebbero, demolendo ogni incongruenza. Ciò che induce nell'uomo l'idea di un mondo trascendente è l'insoddisfazione dell'anima verso ciò che l'esperienza pone innanzi ai sensi: da qui ella si eleva per poter contemplare la natura dell'oggetto che si rivela imperfetto ai sensi. In tal modo si configura nella realtà empirica un principio di razionalità, nonché il suo connotato di perfettibilità (gradualismo). 
  
 Questo particolare aspetto del gradualismo ontologico viene espresso nel Simposio attraverso la teoria dell'eros. Nel dialogo si narra la creazione del dio Eros, generato dall'unione di Poros (personificazione dell'ingegno) e Penia (personificazione della povertà)Eros viene paragonato al filosofo e al tempo stesso all'amante, i quali desiderano l'uno la sapienza, l'altro ciò che lo completa, vale a dire quel che non possiede. In questa prospettiva, allegoricamente Eros si configura come un demone, ossia come un'entità a metà tra gli uomini e gli dèi. In questo modo, Platone traccia la figura del filosofo, il quale non è nè colui che detiene la verità nè colui che ignora la propria ignoranza e non può, dunque, superarla: filosofo è, invece, colui che prende consapevolezza del suo stato di ignorante e per questo va alla ricerca della verità, animato da un autentico «amore per la sapienza», amando «sapendo di non sapere». 

Quanto all'amore, Platone nel Fedro distingue tra amore celeste e amore volgare, il primo orientato al soddisfacimento intellettuale, legato cioè all'anima e alla contemplazione delle idee; il secondo rivolto ai piaceri corporei, in particolare alla sfera sessuale. Il dissidio interno ad ogni uomo circa la tensione erotica (amore volgare) e quella intellettuale (amore celeste) è descritto da Platone in termini di ragione e passioni, l'una in opposizione con l'altra: se a prevalere è l'amore volgare, l'anima resterà legata al corpo e gli sarà preclusa la visione delle idee, al contrario, qualora prevalga l'amore celeste l'anima svilupperà le ali in grado di elevarla al mondo sopraceleste, l'iperuranio.  

Secondo il platonismo, Eros corrisponde alla tensione verso ciò che non si ha, e porta ad amare la bellezza (unica tra tutte le idee ad esibirsi nella realtà fenomenica) seguendo un percorso ascetico composto dai diversi gradi del Bello, mirabile ora nelle cose, dopo nelle attività umane, quindi, infine, nella conoscenza e nel sapere, arrivando così a contemplare il Bello in sè. L'Eros si configura, dunque, come l'amore per la bellezza che dà quell'impulso che fa sì che l'uomo superi la propria individualità, trascenda se stesso, giunga attraverso l'esperienza all'essenza

In questa visione Platone ritiene sia necessario compiere quella che egli chiama una «seconda navigazione» [3], identificabile con il dover proseguire autonomamente la ricerca della verità piuttosto che lasciare che siano le correnti di pensiero già avviate a far sì che lo facciano al posto nostro. La filosofia, dunque, non è un qualcosa di insegnabile: occorre che vi sia un coinvolgimento interiore mosso da un'intensa forza intenzionale, da quella «divina mania» dell'Eros, perché ci si possa dedicare proficuamente alla ricerca filosofica. 
   

[1] L'Accademia è la scuola fondata da Platone nel 387 a.C. circa. Essa era strutturata in modo simile alle comunità pitagoriche (sebbene manchevole della suddivisione gerarchica tipica di queste ultime). L'Accademia è, dunque, una comunità di ricerca piuttosto che una scuola di insegnamento (come invece sarà il Liceo di Aristotele) nella quale, probabilmente, si affrontavano principalmente i temi della filosofia, della scienza e della politica. Essa fu l'istituzione filosofica più longeva dell'antichità: durò ben 922 anni, dal 387 a.C. al 529 d.C., anno in cui venne chiusa da Giustiniano poiché non cristiana.

[2] Platone, come i pitagorici, credeva nella reincarnazione dell'anima: essa alla morte del corpo entro cui è incastonata si libra in cielo e vive indipentemente per un certo periodo di tempo. Durante questo intervallo ha modo di contemplare e conoscere le idee nell'iperuranio per poi reincarnarsi in un altro corpo. Da questa credenza Platone conclude che l'uomo in realtà non impara nulla di nuovo: egli, piuttosto, ricorda attraverso l'esperienza sensibile ciò che la sua anima ha già appreso in precedenza. Tuttavia, fa notare Platone, non tutti possiamo ricordare le stesse idee: ciascuno potrà condurre alla mente soltanto quelle che la sua anima ha avuto modo di osservare ed apprendere durante il suo transito nell'iperuranio.

[3] Secondo il linguaggio marinaresco dell'epoca, si intendeva la «prima navigazione» come quella compiuta attraverso la forza impressa dai venti favorevoli sulla vela dall'imbarcazione; mentre la «seconda navigazione» era quella in cui bisognava far ricorso allorché i venti cessavano: allora si rendeva necessario porre mano ai remi e produrre da sè la forza motrice, lavorando di braccia, ossia con le proprie forze. Allegoricamente ciò corrisponde all'uomo che ricerca da sè la verità, anzichè lasciarsi sospingere dal "vento" dei pensieri dei suoi predecessori o coevi.

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